L’Italia potrebbe spendere per la sanità 19,9 miliardi di euro in più (+11,3% del finanziamento attuale), rispettando le compatibilità macroeconomiche e quindi considerando gli interessi sul debito pubblico e anche il livello di sviluppo del Paese: si tratta di una cifra lontana dalle possibilità di finanziamento reali, considerando che anche altri capitoli di spesa, in primis l’istruzione, sono ancora sotto finanziati. Ma questo incremento non sarebbe sufficiente neanche ad allineare l’organico, e le relative retribuzioni, a quello medio degli altri Paesi europei. Per far fronte alle carenze di personale, servirebbero almeno 30 miliardi di euro, e, per allineare oltre l’organico le retribuzioni dei professionisti agli standard degli altri Paesi, sarebbe necessario raddoppiare l’onere complessivo. Il dato è contenuto nel Rapporto C.R.E.A. Sanità “Manutenzione o Trasformazione: l’intervento pubblico in Sanità al bivio”, presentato nella sede del Cnel a Roma.
A riprova di questa necessità, per soddisfare i bisogni sanitari la popolazione italiana spende privatamente ‘ufficialmente’ per la sanità 41,4 miliardi di euro l’anno, spesi per oltre il 23% da famiglie povere che, se non si trattasse di bisogni reali farebbero davvero a meno di questo onere. E i conti sarebbero certamente ancora più alti considerando che 3,4 milioni di nuclei familiari dichiarano di rinunciare a consumi sanitari e 1,2 milioni effettivamente li azzerano. Oggi l’Italia è il più ricco dei paesi più poveri per quanto riguarda la salute e se si vogliono mantenere le promesse fatte con le riforme che si sono succedute negli anni e con le leggi che hanno modificato l’organizzazione dell’assistenza, sono necessarie scelte precise, anche politicamente scomode. E a dibattere sulle evidenze sottolineate sono per la prima volta sei ex ministri della Sanità/Salute, succeduti alla guida del Ssn negli ultimi 30 anni, per affrontare la discussione basandosi sull’evoluzione che loro stessi hanno dato al Servizio sanitario, anche in modo politico, ma non partitico (per questo, non sono coinvolti gli ultimi due ministri della Salute).
Il Rapporto CREA Sanità fornisce anche lo spaccato della situazione attuale sulle principali voci che compongono il quadro dell’assistenza nazionale analizzandola dal punto di vista socio-sanitario (demografia; finanziamento; reti trasversali tra cui la digitalizzazione, il personale le reti oncologiche; indicatori di performance prevenzione; evoluzione dell’assistenza ospedaliera; assistenza residenziale, specialistica ambulatoriale; farmaci e dispositivi medici; servizi domiciliari; screening; salute mentale), per fare il punto esatto sui problemi economici - e non solo - della sostenibilità del sistema. Nell’analisi del CREA Sanità, che fa il punto esatto da cui partire per il ripensamento del sistema, ci sono poi confronti internazionali e, a livello nazionale, un focus Regione per Regione dei risultati positivi e negativi che le caratterizzano e il Rapporto mette a confronto anche i risultati e gli effetti delle scelte negli ultimi tre trienni di gestione sanitaria. Aspetto “guida” è quello dell’equità, sul quale il Rapporto sottolinea, tra l’altro, che il finanziamento del sistema stesso è concentrato su meno del 20% della popolazione e il restante 80% versa meno del valore dei servizi sanitari che (in media) riceve dallo Stato: “Una esagerata sperequazione dei redditi a livello nazionale – si afferma nel Rapporto – con conseguenze in termini di sostenibilità, visto che il servizio sanitario pubblico economicamente pesa sulle spalle di una quota davvero esigua della popolazione”.
Gli sbilanciamenti del sistema non finiscono qui: nel finanziamento il differenziale di fabbisogno standard regionale è compreso in un range tra minimo e massimo pro-capite di circa 150 euro. Parallelamente, il range in cui si posizionano le differenze delle spese private a livello regionale è di 471,8 euro quindi 3 volte quello del fabbisogno standard e 1,4 volte quello del finanziamento effettivo. Tutto questo ovviamente ha i suoi effetti sulla spesa: si conferma un continuo allontanamento dai livelli medi internazionali; in confronto a un PIL pro-capite inferiore del 19,7% rispetto alla media dei Paesi EU-Ante 1995, la spesa sanitaria pubblica è sotto la media del 44,1% (gap in crescita dell’1,2% rispetto al 2022 e dell’11,4% nel decennio), e quella privata dell’8,7% (gap in crescita del 2,3% rispetto al 2022 e in riduzione del 12,0% rispetto al 2013). Anche se l’attuale finanziamento del SSN ha raggiunto il livello massimo mai ottenuto, dividendo l’orizzonte temporale in tre sottoperiodi biennali (pre-pandemia 2019-2021, pandemia 2020-2021 e post-pandemia 2022-2023), il Rapporto rileva nel primo periodo un incremento reale del +1,6%; nel secondo del +3,4%; nel terzo risulta negativo (-4,9%). Passando a un confronto basato su una analisi statistica della relazione fra risorse dei Paesi (PIL pro-capite, al netto degli interessi sul debito pubblico che sono indisponibili per il finanziamento del Welfare) e spesa sanitaria pro-capite, la spesa per la Sanità in Italia risulta inferiore al livello atteso dell’11,3 per cento.
La trasformazione ha un obiettivo principale: rendere il Servizio capace di riallineare le “promesse” alle risorse disponibili, evitando razionamenti impliciti che sono per definizione oggetto di ingiustizia perché penalizzano la popolazione più fragile, in termini di salute ma, ancor di più, di censo e di literacy sanitaria. Per raggiungere questo obiettivo, l’intervento pubblico deve allargare i suoi confini, rinunciando ad arroccarsi sull’idea di una posizione egemonica del servizio pubblico, occupandosi della governance di tutto il sistema sanitario, compresa la (rilevante) quota di servizi sanitari oggi classificati come sanità privata. Per razionalizzare è prima necessario aprire un dibattito sui principi a cui ispirarsi: tra le opzioni che possono essere dibattute quella di agire in base alla severità clinico/assistenziale dei bisogni (priorità alle patologie più severe), oppure in base al merito delle risposte (dando priorità agli interventi a maggiore valore terapeutico o valore sociale). O ancora in base alle barriere all’accesso (dando priorità ai bisogni dei meno abbienti e/o dei meno “sanitariamente alfabetizzati”). “Avere una vision implica priorità – afferma il Rapporto - e darsele implica, per definizione, fare scelte politicamente ‘scomode’: una considerazione che porta ad affermare che è necessaria una condivisione super-partes sull’adeguamento dei principi dell’intervento pubblico (governance) in Sanità, che eviti il rischio che la Sanità sia oggetto di mero scontro partitico.