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Il nucleare in Italia: dal 1957 ad oggi
16 MAR - -
Sessanta: gli anni “eroici”
La primissima struttura nucleare italiana fu il reattore sperimentale costruito nel territorio del Comune di Ispra (Varese) tra il 1957 e il 1959 (dapprima sotto il controllo del Cnrn, Comitato nazionale ricerca nucleare, poi sotto quello dell’Euratom nel 1961); il reattore fu affiancato nel 1967 a un secondo reattore Essor che lo sostituì nell’attività di ricerca e rimase attivo fino al 1983, quando venne disattivato. Attualmente al suo interno sono stoccati circa 3000 mc di materiale radioattivo e alcuni elementi di combustibile irraggiato. Il centro di ricerca è ancora attivo ma in altre aree: energia, ambiente, OGM, strutture antisismiche ecc.  
La prima vera centrale nucleare italiana è sorta a Latina (Borgo Sabotino per la precisione) nel 1963. E si tratta di uno degli impianti più potenti a livello europeo, con un unico reattore di tipo Magnox da 153 MW (megawatt, cioè un milione di watt) di potenza elettrica netta, a uranio naturale, moderato a grafite e raffreddato con anidride carbonica (sulle varie tipologie di reattore vedi il box). Dal suo primo giorno di esercizio, fino a quello del suo arresto, avvenuto nel novembre del 1986, l'impianto ha prodotto circa 26 TWh (il Terawattora indica una potenza di un milione di miliardi di watt/h e viene utilizzato per indicare la quantità di energia elettrica prodotta nel mondo). Attualmente è in fase di decommissioning (cioè il totale smantellamento): tutto il combustibile utilizzato è stato inviato in Inghilterra per i trattamenti; nel 1991 è stato  venduto il combustibile non utilizzato; al momento nell’impianto sono conservati tutti i rifiuti radioattivi prodotti nel periodo d’esercizio.
Nel gennaio del 1964 è stata messa in funzione la seconda centrale nucleare, quella del Garigliano (Sessa Aurunca). Anche questo impianto aveva un unico reattore da 150 MW di potenza elettrica netta. Ma si trattava di un modello diverso da quello di Latina: il materiale fissile, infatti, era uranio leggermente arricchito, moderato ad acqua leggera e raffreddato secondo lo schema ad acqua bollente (BWR). La centrale subì un guasto  nel 1978 e appena quattro anni più tardi fu chiusa a causa dei costi di riparazione eccessivamente elevati. Al momento vi sono conservati materiali radioattivi m(materiale metallico ad alta attività) estratti e condizionati attraverso cementificazione e depositati in un locale opportunamente predisposto; sono anche presenti rifiuti radioattivi a media e bassa attività conservati e stoccati nell’area a essi riservata dell’impianto.
Terza in ordine di tempo è stata la centrale di Trino Vercellese (dedicata a Enrico Fermi), entrata in funzione nel 1965. Fu scelto un modello di impianto ancora diverso dagli altri: un reattore Westinghouse da 270 MW lordi a uranio a medio arricchimento, moderato ad acqua leggera e raffreddato ad acqua pressurizzata (PWR) che in quel momento faceva della centrale di Trino l’impianto più potente nel mondo. Nel 1987 la centrale di Trino proseguiva ancora la propria attività. Attualmente è in fase di “arresto a Freddo”: il combustibile irraggiato è conservato all’interno dell’impianto nella piscina di “decadimento”: si tratta di 47 elementi di combustibile irraggiato oltre ai rifiuti radioattivi.
La quarta centrale è quella di Caorso (Piacenza), che ha iniziato a produrre energia nel 1981. È stata chiusa definitivamente nel 1990. Anche questa è stata messa in “custodia protettiva passiva“ ma dal 2001 ha preso il via il processo di decomissioning. Nel 2006 gli oltre 1000 elementi utilizzati durante l’esercizio sono stati inviati in Francia per il trattamento. Rimangono ancora stoccati nell’impianto circa 6800 fusti da 220 litri di rifiuti non condizionati (circa 1600 mc). L’operazione di dismissione dovrebbe concludersi nel 2019.
Oltre a questi segnalati, sul territorio italiano sono presenti altri siti nucleari:
  • impianto Eurex di Saluggia(Vc) realizzato tra il 1965 e il 1970, sarebbe stato utilizzato per il riprocessamento dei combustibili dei reattori di ricerca della CE. Dal 1984 non è più in funzione; al suo interno sono conservati rifiuti a bassa, media e alta attività (52 elementi  e circa 230 mc di rifiuti liquidi ad alta attività)
  • deposito Avogadro di Saluggia(Vc) lo realizzò la Fiat a fine anni ’50 come reattore nucleare sperimentale. Nel 1984 è stato trasformato in deposito per combustibile irraggiato di proprietà dell’Enel. Contiene 49 elementi della centrale di Trino Vercellese, e 322 della centrale del Garigliano. La Sogin ha provveduto a trasferire gran parte del materiale irraggiato a Sellefield (UK) ma il deposito contiene ancora 63 elementi di tipo Mox (si tratta di una miscela spesso composta da ossidi di plutonio e uranio naturale, riprocessato o depresso)
  • impianto  di Bosco Marengo (Al): ha operato dal 1973 al 1995 fabbricando combustibile per le centrali nucleari italiane ma anche per alcuni reattori esteri. Parte del materiale è stato venduto e trasferito all’estero e i rifiuti radioattivi sono stati risistemati
  • impianto ITREC (impianto trattamento elementi combustibile), CR Trisaia, di Rotondella (Mt):è stato realizzato tra il 1965 e il 1975 e doveva essere utilizzato per dimostrare la fattibilità della chiusura del ciclo uranio-torio (ricerche in tal senso che avrebbero permesso di ricorrere al torio, assai meno raro dell’uranio, quale “fertilizzante” dell’uranio). Attualmente contiene rifiuti a bassa, media e alta attività
  • impianto OPEC e IPU della Casaccia (Roma): ha iniziato la sua attività d’esercizio nel 1962 ed è stato il primo laboratorio italiano nel quale sono stati eseguiti studi su combustibili irraggiati. La disattivazione del laboratorio (se ne aggiunse un altro però mai entrato in funzione) ha già prodotto l’incapsulazione del combustibile irraggiato giacente allo smantellamento delle attrezzature e alla decontaminazione di tre celle
  • impianto Plutonio CR Casaccia (Roma): operativo dal 1968, si trattava di alcuni laboratori attrezzati per svolgere ricerche sulle varie fasi di fabbricazione e di controllo degli elementi di combustibile nucleare a base di ossidi misti uranio-plutonio. Dal 1977 al 1979 furono fabbricati combustibili al plutonio per il reattore dei Chalk River in Canada. Successivamente è stato utilizzato per la gestione di rifiuti radioattivi prodotti nel corso del periodo di attività.

   
A segnare il destino del nucleare nel nostro Paese fu certamente l’incidente di Chernobyl del 26 aprile 1986. Come già accennato il disastro del reattore n. 4 fu determinato – stando almeno alla versione più accreditata – da un insieme di circostanze sfortunate e di disattenzioni che resero inutili le misure di sicurezza. Ma le ripercussioni mondiali furono tali da rafforzare – e di molto – le posizioni degli antinuclearisti. Lo dimostra anche il deciso rallentamento che da quelle’anno fu registrato nella costruzione di nuovi centrali un po’ in tutto il mondo.
Da quell’episodio ebbe certamente una forte spinta il referendum abrogativo del 1987. Che, si badi bene, non riguardava direttamente l’esistenza o l’eventuale smantellamento delle centrali già esistenti, bensì, la cancellazione di specifiche disposizioni della normativa in vigore. Il primo dei tre quesiti, infatti, aveva a oggetto l’abrogazione della norma che consentiva allo Stato di intervenire d’imperio nel caso in cui un Comune avesse rifiutato di concedere un sito per la costruzione di una centrale nucleare. La vittoria dei si (all’abrogazione della norma) fu ottenuta con una percentuale molto alta, l’80,6% dei votanti (poco più del 65% degli aventi diritto). Il secondo quesito referendario, al contrario, chiedeva l’abrogazione dei contributi statali a favore degli enti locali che avessero concesso il permesso di costruire impianti nucleari sul loro territorio: qui i “sì” si imposero con il 79,7%. L’ultimo quesito chiedeva l’abrogazione della norma che permetteva all’Enel di partecipare alla costruzione di centrali nucleari all’estero. E anche qui la percentuale dei voti favorevoli fu superiore al 70%.
Inevitabile la ripercussione di questi risultati sulla vita del Progetto Unificato Nucleare e sulla chiusura delle tre centrali funzionanti di Latina, Trino e Caorso (l'impianto del Garigliano aveva già subito uno stop nel 1982 a causa di alcuni guasti prima del decommissioning). Va sottolineato che soltanto la centrale di Caorso era ancora pienamente attiva: le altre due, cioè Latina e Trino erano giunte alla fine del loro ciclo produttivo (le centrali, è bene ricordarlo, hanno una “vita” produttiva ben determinata e quelle due, in particolare, sarebbero potute restare in funzione per circa 20 - 30 anni dalla loro attivazione).
Gli impianti in costruzione furono invece riconvertiti: la centrale di Montalto di Castro divenne la centrale a policombustibile Alessandro Volta, mentre per quanto riguarda Trino e il suo secondo impianto il sito individuato ospita un impianto a gas a ciclo combinato.
 
Si torna all’atomo?
Gli atti più recenti nella storia italiana del nucleare sono quelli compiuti dal Governo che ha emanato una serie di provvedimenti e cioè la legge 133/2008, lalegge 99/2009 (l’articolo 29 costituisce l’Agenzia per la sicurezza nucleare in Italia) e l’ampioDecreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31.
Un’ulteriore, importante provvedimento che riguarda da vicino i Comuni e le aree nelle quali si sviluppò e crebbe il nucleare italiano, è ancor più recente e risale ai primi giorni di dicembre, quando nell’ambito della Conferenza Stato-città e autonomie locali, è stato siglato un accordo che porterà all’attivazione di un “Tavolo di coordinamento per le attività di indagine epidemiologica nelle aree interessate dalla precedente generazione nucleare”.
Compiti del tavolo, come si legge nella bozza del documento (alla sua stesura hanno partecipato la Conferenza, il ministero della Salute, l’Istituto superiore di sanità, l’Anci e il presidente della Consulta dei sindaci dei Comuni sedi di servitù nucleari), saranno quelli di individuare la fattibilità di programmi di valutazione dello stato di salute della popolazione residente. Si tratta in sostanza di un approfondimento che dovrebbe consentire di fornire alla stessa popolazione informazioni più ampie legate alla presenza sul territorio di siti nucleari.
Del tavolo faranno parte:

  • un rappresentante del ministero della Salute
  • due rappresentanti del ministero del’Interno
  • un rappresentante del ministero dell’Ambiente
  • un rappresentante del Dipartimento per gli affari regionali della presidenza del Consiglio dei ministri
  • due rappresentanti dell’Anci (Associazione dei Comuni)
  • un rappresentante dell’Upi (Unione Province italiane)
  • un rappresentante dell’Uncem (Unione nazionale Comuni comunità montane)

Oltre a questi parteciperanno ai lavori esperti dell’Iss e dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale).
Si tratta, come ha ricordato anche Fabio Callori, sindaco del Comune di Caorso, della prima iniziativa concreta a livello nazionale. “Indagini e studi, in passato erano stati compiuti” ha ricordato Callori. “Ma sempre a livello locale e in modo non coordinato. La creazione di questo tavolo, dunque, appare come il raggiungimento di uno degli obiettivi più importanti della Consulta dei Comuni sedi di servitù nucleari”. L’organismo in questione del quale lo stesso Callori è coordinatore, raggruppa infatti tutti i comuni nel cui territorio sono sorti e hanno operato impianti nucleari: Caorso, Trino Vercellese, Latina, Sessa Aurunca (Garigliano), Saluggia (Vc), Bosco Marengo (Al), Rotondella (Mt), Roma, ai quali si sono aggiunti i Comuni di Piacenza, Caserta, Vercelli e Ispra (Va).
Quello dell’istituzione del Tavolo per la realizzazione degli studi epidemiologici nei molti siti nucleari italiani, è uno dei molti obiettivi che la Consulta si propone. Tra questi anche  l’accelerazione delle operazioni di smantellamento completo degli impianti: a Caorso, ricorda Callori, le operazioni sono iniziate nel 2006, venti anni dopo l’attivazione della centrale. E si prevede termineranno nel 2019.
16 marzo 2011
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