Le liste d’attesa per prestazioni specialistiche e la gestione dei pazienti cronici rappresentano oggi due dei principali problemi della sanità italiana. I segnali provenienti da pazienti e medici indicano un costante peggioramento di queste criticità.
Negli ultimi anni le istituzioni hanno proposto varie soluzioni – dalle task force per smaltire le liste d’attesa, a Piani Nazionali della Cronicità e investimenti del PNRR in nuovi servizi territoriali – ma nessuna sembra affrontare il nodo fondamentale che accomuna questi problemi.
Il punto critico rimane infatti la carenza di un’adeguata rete di assistenza specialistica territoriale.
Senza questo pilastro, tutti gli interventi rischiano di essere palliativi: le liste d’attesa si allungano perché mancano specialisti sul territorio che possano farsi carico dei pazienti non urgenti, e i pazienti cronici restano senza riferimenti sanitari tra una visita del medico di medicina generale e un eventuale ricovero ospedaliero.
Di conseguenza, il sistema continua a oscillare tra due estremi – l’ambulatorio del medico di famiglia da una parte e l’ospedale dall’altra – con in mezzo un vuoto assistenziale che alimenta inefficienze e disuguaglianze di cura.
Il Servizio Sanitario Nazionale sconta, grazie ai governi che si sono succeduti dal 1992 ad oggi, la progressiva riduzione di una specialistica ambulatoriale territoriale a diretta gestione del SSN strutturata e capillare.
In teoria l’Italia dispone di migliaia di medici specialisti convenzionati che operano per il SSN al di fuori degli ospedali – cardiologi, diabetologi, ortopedici, oculisti, etc. –questa rete da oltre 50 anni e pienamente integrata nell’organizzazione territoriale ma non è mai stata pienamente sviluppata e supportata anzi al contrario ed ancora oggi non vediamo interventi da parte del Governo e delle Regioni in questo senso nonostante siano stati siglati vari ACN.
Il risultato è che il territorio, è sempre più carente di specialisti dedicati, non riesce a prendere in carico efficacemente i pazienti cronici che non necessitano di ricovero.
Questo genera un duplice effetto negativo:
• Sovraccarico degli ospedali: molti pazienti cronici o con patologie gestibili in ambito extraospedaliero finiscono per rivolgersi impropriamente all’ospedale (spesso attraverso il Pronto Soccorso) per ottenere visite e assistenza che altrove non trovano. Ciò intasa i reparti e allunga ulteriormente le liste per interventi davvero necessari, creando congestione e spreco di risorse.
• Cure tardive o insufficienti sul territorio: una larga fetta di popolazione con malattie croniche rimane senza risposte adeguate da parte del sistema sanitario fino a che la situazione clinica non si aggrava. Questa frammentazione dell’assistenza aumenta il rischio di complicanze e peggiora la qualità di vita, oltre a generare costi maggiori in seguito (ricoveri d’urgenza, accessi ripetuti al PS, ecc.).
In altri termini, senza specialisti ambulatoriali convenzionati interni, operanti nelle strutture ambulatoriali e poliamblatoriali, quelle che saranno le future Case della Comunità sia Hub che Spoke, sul territorio viene a mancare il livello intermedio di cura tra il medico di medicina generale e l’ospedale.
Il medico di medicina generale da solo non può farsi carico di tutte le esigenze diagnostico-terapeutiche, anche se dotato di strumenti diagnostici, dei suoi assistiti cronici, mentre gli ospedali non possono – né dovrebbero – gestire ambulatori per ogni paziente cronico stabilizzato.
Questa lacuna organizzativa condanna il sistema sanitario a un’inefficienza strutturale: l’assistenza resta reattiva anziché proattiva, frammentata anziché continua, con costi elevati e risultati subottimali.
I cittadini percepiscono un “vuoto” di risposta ai loro bisogni di salute ordinari, e spesso devono arrangiarsi tra ritardi, file o pagando, se possono, di tasca propria le prestazioni privatamente o altrimenti affollando i Pronto Soccorsi.
Ancora una volta, le strategie istituzionali in discussione – dai piani per abbattere le liste d’attesa alle riforme della sanità territoriale – sembrano ignorare il contributo cruciale dei medici e professionisti specialisti ambulatoriali convenzionati interni.
Si tratta di circa 20.000 professionisti in tutta Italia che operano nei poliambulatori delle ASL (e spesso anche in ospedale, in consultorio, nelle carceri o a domicilio) in virtù di un contratto convenzionato e a diretta gestione da parte del SSN.
Come detto, sono cardiologi, pneumologi, neurologi, endocrinologi, ortopedici, oculisti, radiologi e molte altre specialità: figure chiave per la gestione delle patologie croniche e per l’assistenza specialistica di primo livello.
Eppure, il loro potenziale risulta sottovalutato o addirittura non considerato.
Il Ministero della Salute continua di fatto a concepire la sanità territoriale come imperniata quasi esclusivamente sui medici di famiglia e sulle nascenti Case della Comunità, senza esplicitare come e con quali risorse specialistiche queste strutture potranno funzionare.
Non coinvolgere attivamente gli specialisti ambulatoriali convenzionati significa vanificare qualsiasi piano di potenziamento del territorio.
Sono proprio questi professionisti, infatti, che dovrebbero garantire continuità di cura ai pazienti cronici nelle nuove strutture sanitarie territoriali previste dal PNRR: dalle Case della Comunità agli Ospedali di Comunità, fino all’assistenza domiciliare.
Ignorare il loro ruolo e non investirvi risorse dedicate rischia di lasciare cattedrali nel deserto: poli territoriali nuovi di zecca ma privi delle competenze specialistiche necessarie per prendersi realmente cura dei pazienti.
In definitiva, escludere questi 20 mila medici e professionisti sanitari significa rinunciare a una risorsa già disponibile nel SSN e condannare il sistema a restare incompleto e inefficace.
Non possono solo i convenzionati esterni risolvere il problema, possono aiutare, ma non prendere in carico nelle Case della Comunità i pazienti.
La risposta ai problemi sopra descritti non può limitarsi quindi al solo binomio medico di medicina generale – ospedale.
Una vera medicina territoriale deve essere costruita attorno a team multidisciplinari che lavorino in sinergia per garantire una presa in carico integrata dei pazienti. Il modello da perseguire è quello delle Case della Comunità come hub di prossimità, in cui operano fianco a fianco:
• i Medici di Medicina Generale (MMG) e i Pediatri di Libera Scelta, primo punto di contatto per l’assistenza primaria;
• gli Specialisti Ambulatoriali onvenzionati Interni (SAI) convenzionati per fornire consulenze specialistiche, diagnostica di primo livello e follow-up dei pazienti cronici, quando e dove necessario;
• gli Infermieri di famiglia e di comunità, cruciali per l’assistenza domiciliare, l’educazione sanitaria e il raccordo tra servizi;
• altre Professioni sanitarie e operatori sociali (fisioterapisti, assistenti sociali, psicologi, biologi, chimici, fisici, tecnici della riabilitazione, ecc.) per affrontare i bisogni complessi in modo globale.
• I Medici Veterinari per il controllo e la prevenzione di malattie derivanti da animali e le zoonosi, tristemente note.
Queste figure, operando insieme all’interno delle strutture territoriali, possono garantire un accesso alle cure efficace ed efficiente all’interno delle strutture territoriali previste dal PNRR.
Un’équipe così composta è in grado di farsi carico del paziente a 360 gradi: dalla prevenzione, alla gestione della cronicità, fino alla riabilitazione e al supporto socio-sanitario.
Questo approccio multiprofessionale porta benefici tangibili: migliora la qualità dell’assistenza, la rende più vicina ai pazienti, riduce le duplicazioni di prestazioni (grazie alla condivisione delle informazioni cliniche) e riduce sensibilmente le liste d’attesa distribuendo la domanda di prestazioni su più punti di erogazione.
In altre parole, il cittadino non è più costretto ad attendere mesi per una visita specialistica perché può ottenerla nel centro territoriale in tempi adeguati; il paziente cronico non è più “perso di vista” dopo la dimissione, perché l’équipe territoriale lo segue attivamente e lo richiama per i controlli necessari. Questo modello organizzativo, delineato anche dal DM 77/2022 e sostenuto dai finanziamenti del PNRR, rappresenta l’unica strada per superare l’attuale frammentazione: portare le cure vicino alle persone, connettendo tutti gli attori della salute in rete.
Un altro elemento fondamentale di riforma è la piena integrazione tra ospedale e territorio. Oggi troppo spesso si assiste a un “salto nel vuoto” quando un paziente viene dimesso dall’ospedale: dopo la fase acuta, il raccordo con i servizi territoriali è debole o inesistente, lasciando il paziente e la sua famiglia soli a gestire terapie e follow-up.
In un sistema integrato, invece, il ricovero ospedaliero diventa una parentesi all’interno di un percorso di cura continuo: il paziente cronico, stabile o fragile viene preso in carico sul territorio, inviato in ospedale solo quando necessario, e accompagnato nuovamente sul territorio al momento della dimissione (dimissione protetta).
Ciò richiede protocolli condivisi e collaborazione costante tra i medici ospedalieri e l’équipe territoriale, ma porta benefici enormi: ad esempio, nel caso di patologie come la fibrillazione atriale o la BPCO, gli esperti evidenziano che un’efficace integrazione tra territorio e ospedale riduce le complicanze e garantisce percorsi di cura più appropriati.
In pratica, il paziente sarebbe dimesso e affidato a specialisti ambulatoriali convenzionati interni e infermieri che ne seguono il decorso a domicilio o presso la Casa della Comunità, adeguando le terapie e intervenendo precocemente in caso di problemi, in stretto contatto anche con lo specialista ospedaliero di riferimento che lo ha dimesso.
Questo monitoraggio post-ricovero riduce il rischio di riacutizzazioni e nuovi accessi al pronto soccorso, migliorando anche la qualità della vita del paziente. Allo stesso tempo, l’ospedale può concentrare le proprie risorse sui casi acuti e complessi, sapendo di poter contare sul territorio per il “dopo”.
Ospedale e territorio, dunque, non più come due mondi separati, ma come vasi comunicanti all’interno di un unico continuum assistenziale. Questa sinergia è imprescindibile per una sanità moderna: consente di semplificare il percorso del paziente (che non deve districarsi da solo tra diversi livelli di cura) e di utilizzare in modo più efficiente le risorse del sistema, evitando doppioni e vuoti assistenziali.
In conclusione, Caro Ministro Schillaci, Cari Presidenti di Regione ed Assessori alla Salute, Cari Direttori Generali di Aziende Sanitarie, senza un investimento reale e lungimirante sulla specialistica ambulatoriale convenzionata interna e sul modello integrato territorio-ospedale, qualsiasi riforma della sanità territoriale rischia di rimanere un’operazione di facciata.
Le criticità delle liste d’attesa e della gestione della cronicità affondano le radici proprio nella debolezza dell’assistenza territoriale specialistica.
Per rispondere alle reali esigenze della popolazione, occorre colmare questo gap strutturale: ciò significa valorizzare e potenziare il ruolo degli specialisti ambulatoriali convenzionati interni, aumentandone la presenza nelle strutture territoriali e integrandoli nei percorsi di cura aumentando immediatamente le ore di specialistica ambulatoriale ai titolari di incarico che non hanno il massimale orario e che lo vogliono raggiungere, sostituire chi va in pensione e non alienare le loro ore, dare nuovi incarico agli specialisti che sono presenti nelle diverse graduatorie dei Comitati Zonali.
Significa anche promuovere concretamente il lavoro in team multidisciplinare nelle Case della Comunità, finanziando non solo i muri e le tecnologie, ma soprattutto il capitale umano necessario a farli funzionare (medici, infermieri e operatori ben coordinati).
Aumentare le retribuzioni, prevedere percorsi di carriera e scatti e fasce di anzianità, premiare l’esclusività del rapporto per chi lo desidera, deburocratizzare l’attività medica, prevedere anche per i medici convenzionati quanto viene previsto per i dipendenti e per la dirigenza.
Parallelamente, è necessario costruire meccanismi stabili di coordinamento tra i responsabili di branca territoriali ed i direttori di Unità operative ospedaliere, affinché il passaggio dei pazienti da ospedale e verso il territorio e viceversa avvenga in modo fluido e organizzato.
Prevedere la collaborazione di specialisti ambulatoriali convenzionati Interni con le Farmacie diffuse sul territorio per prevedere prestazioni specialistiche anche all’interno delle Farmacie.
Solo attraverso queste azioni, il Servizio Sanitario Nazionale potrà evolvere verso un modello più efficiente ed equo, in cui ogni cittadino riceva le cure giuste al momento giusto e nel luogo più appropriato.
Ignorare queste priorità significherebbe continuare a tamponare le emergenze senza mai risolverle davvero. Al contrario, investire nel territorio – inteso come rete di professionisti e servizi integrati – equivale a investire nel futuro della sanità pubblica italiana, rendendola più vicina alle persone, più tempestiva e capace di affrontare le sfide demografiche ed epidemiologiche dei prossimi anni.
In definitiva, la vera sfida è trasformare le buone intenzioni in realtà operative: dotare il territorio degli strumenti e delle competenze per farsi carico dei pazienti prima, durante e dopo l’ospedale. Solo così potremo ridurre le liste d’attesa, migliorare la gestione della cronicità e garantire un sistema sanitario sostenibile e centrato sul cittadino.
Antonio Magi
Segretario Generale SUMAI Assoprof