Parkinson, l’esercizio fisico intenso aiuta a tenere a bada la malattia. I risultati dello studio italiano
La ricerca, condotta su un modello sperimentale di malattia e pubblicata su Science Advances, è frutto della collaboazione tra l’Università Cattolica campus di Roma e la Fondazione Policlinico A. Gemelli IRccs, e Università telematica San Raffaele Roma, Cnr, Tigem, Università degli studi di Milano e Irccs San Raffaele di Roma. Dimostrati gli effetti neuroprotettivi dell’attività fisica e i meccanismi biologici coinvolti. In corso uno studio clinico per verificare gli effetti dell’esercizio fisico sui pazienti.
17 LUG - Dall’Italia arriva la notizia che l’esercizio fisico intensivo potrebbe rallentare il decorso della malattia di Parkinson. È il risultato di uno studio intitolato
“Intensive exercise ameliorates motor and cognitive symptoms in experimental Parkinson’s disease restoring striatal synaptic plasticity” pubblicato su
Science Advances che vede coinvolti, oltre all’Università Cattolica, campus di Roma e alla Fondazione Policlinico A. Gemelli IRCCS, diversi istituti di ricerca: Università telematica San Raffaele Roma, CNR, TIGEM, Università degli studi di Milano, IRCCS San Raffaele Roma. I ricercatori hanno compreso anche i meccanismi biologici sottostanti, una scoperta importante che potrebbe aprire la strada a nuovi approcci non-farmacologici.
La ricerca, resa possibile da finanziamenti da parte del Fresco Parkinson Institute to New York University School of Medicine and The Marlene and Paolo Fresco Institute for Parkinson's and Movement Disorders, del Ministero della Salute e del MIUR (sia relativi al bando PRIN 2017, sia quelli CNR-MUR, due grant differenti), ha individuato un nuovo meccanismo responsabile degli effetti positivi dell’esercizio fisico sulla plasticità cerebrale.
Sebbene questi risultati siano stati ottenuti su un modello sperimentale di malattia, gli autori intravedono importanti implicazioni per il paziente. “La novità del nostro studio – sottolinea in una nota il professor
Paolo Calabresi, corresponding author dello studio, Ordinario di Neurologia all’Università Cattolica e direttore della UOC Neurologia al Policlinico Universitario A. Gemelli Irccs - risiede nell’aver scoperto un meccanismo mai osservato prima, attraverso il quale l’esercizio fisico effettuato nelle fasi precoci della malattia induce effetti benefici sul controllo del movimento volontario che possono durare nel tempo anche dopo l’interruzione dell’allenamento. La scoperta – prosegue Calabresi - suggerisce che un’attività fisica intensiva effettuata in maniera regolare è in grado di indurre modificazioni funzionali e strutturali nei neuroni e consente di contrastare gli effetti di eventi che provocano tossicità neuronale. Questo nuovo meccanismo individuato può permettere di identificare nuovi target terapeutici e marcatori funzionali da tenere in considerazione per sviluppare trattamenti non-farmacologici da adottare in combinazione con terapie farmacologiche attualmente in uso”.
Precedenti lavori, spiega la nota, hanno mostrato che l’attività fisica intensiva si associa a un aumento della produzione di un fattore di crescita fondamentale per la sopravvivenza dei neuroni, il brain-derived neurotrophic factor (BDNF). In questo studio gli autori hanno osservato lo stesso fenomeno in risposta ad un protocollo di allenamento su tapis roulant e per la prima volta hanno dimostrato il meccanismo attraverso cui questo fattore neurotrofico agisce nel determinare gli effetti benefici dell’attività fisica a livello cerebrale e quindi comportamentale. Quindi gli esperti hanno dimostrato che un protocollo di esercizio fisico della durata di quattro settimane può rallentare la progressione di malattia in un modello animale di Parkinson in fase iniziale (ottenuto con la somministrazione intracerebrale di alfa-sinucleina umana, una proteina che nella sua forma aggregata ha un ruolo importante nella malattia).
LO STUDIOLo studio, che vede come principali autrici le dottoresse
Gioia Marino e
Federica Campanelli, ricercatrici della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica, campus di Roma, ha utilizzato diverse tecniche per misurare un effetto neuroprotettivo dell’esercizio fisico sul comportamento motorio e sulla cognizione visuo-spaziale.
L’effetto principale, osservato in risposta all’allenamento giornaliero su tapis roulant per quattro settimane, è stato la riduzione della diffusione degli aggregati patologici di alfa-sinucleina, che nella malattia di Parkinson porta alla graduale e progressiva degenerazione delle cellule nervose di alcune aree cerebrali (la sostanza nera pars compacta e lo striato – la cosiddetta via nigrostriatale), deputate al controllo del movimento.
L’effetto neuroprotettivo dell’attività motoria è associato alla sopravvivenza dei neuroni che rilasciano il neurotrasmettitore dopamina e alla capacità dei neuroni del nucleo striato di continuare a svolgere la loro funzione, aspetti altrimenti compromessi dalla malattia.
Anche il controllo motorio e l’apprendimento visuo-spaziale, funzioni dipendenti dall’attività nigrostriatale, risultano intatte negli animali sottoposti ad allenamento intenso.
I neuroscienziati hanno anche scoperto che il BDNF, che aumenta con l’esercizio fisico, interagisce con il recettore NMDA per il glutammato, consentendo ai neuroni dello striato di rispondere agli stimoli in modo efficace, con effetti che perdurano nel tempo anche oltre l’interruzione dell’esercizio fisico.
Per quanto riguarda i possibili sviluppi di questa ricerca il professor Paolo Calabresi aggiunge che: “il nostro gruppo di ricerca è coinvolto in uno studio clinico per verificare se l’esercizio fisico possa rallentare la progressione della malattia di Parkinson nei pazienti in fase precoce e individuare nuovi marcatori in grado di seguire il decorso della patologia. Considerato che la malattia di Parkinson è caratterizzata da una importante componente neuroinfiammatoria e neuroimmune, che riveste un ruolo chiave nelle prime fasi della malattia, la ricerca proseguirà grazie all’apporto determinante dei modelli animali, che ci permetteranno di indagare anche il coinvolgimento delle cellule della glia, popolazioni cellulari che supportano l’attività dei neuroni, oltre a essere implicate nella risposta immunitaria. Ciò consentirà di identificare meccanismi molecolari e cellulari alla base degli effetti benefici osservati”.